La prima volta che ho visto Davide in ambulatorio è stato di sfuggita. Attendeva per fare le prescrizioni con la segretaria, mi guardava di sottecchi. Pantaloni di cotone bianco, infradito di cuoio, camicia nera larghissima, lasciata cadere fino alle ginocchia; un lieve effetto era per me la sua voce suadente in lontananza, lo sguardo dolce, un abbozzo di seni sotto il tessuto e i capelli ricci e lunghi, raccolti dietro la testa con una coda. Davide mi ha evitato per mesi, fino a quando un giorno aveva una gran tosse, è entrato in ambulatorio e si è lasciato visitare. Fuori era estate, i ritmi più lenti e morbidi, meno persone in sala d’aspetto. Era un pomeriggio molto caldo di Luglio. Sollevò la maglia quel tanto da lasciarmi auscultare i polmoni: aveva la pelle profumata e chiara, di chi non va mai al mare, un grosso neo sul dorso; non ho dovuto evitare con il fonendoscopio la cinghia di alcun reggiseno. Gli ho chie-sto di respirare forte e se avesse mai fatto controllare quel neo. Abbiamo rotto il ghiaccio così. Dopo una piccola conversazione di rito, le prescrizioni e i consigli, ci siamo salutati con un sorriso e una stretta di mano. Le volte successive entrava da me per fare le prescrizioni, per comunicare le variazioni del piano terapeutico degli ormoni, per farsi controllare quel neo, che in fondo non lo preoccupava. Davide era sempre più sciolto e sorridente con me. E io con lui. Poco a poco si riusciva sempre più a parlare di noi, delle nostre rispettive https://www.acheterviagrafr24.com/acheter-viagra-sans-ordonnance/ vite, i desideri, le fatiche. Chiesi se quella cura ormonale funzionasse, mi rispose che qualche miglioramento fisico c’era stato, ma stava valutando un’operazione radicale e definitiva, il giorno che avesse capito finalmente cosa voleva dalla sua vita e dal suo corpo. Mi rivelò che stava facendo da anni un percorso psicoterapeutico con una persona che stimava e alla quale era molto affezionato. Stava capendo sempre più come accettare la propria posi-zione nel mondo, i suoi desideri, le fantasie, ma soprattutto l’immagine interiore che aveva di se stesso, che in nulla corrispondeva a quello che vedeva nello specchio.

* Mi sento Elisa, mi disse guardandomi negli occhi, e non Davide. Oddio… Quasi Elisa, visto che ancora non sono proprio donna donna.

* Elisa è un bellissimo nome, posso chiamarti Elisa invece che Davide?

* Certo! Per me sarebbe una cosa bellissima…

* Allora queste sono le tue prescrizioni e le impegnative, Elisa… Ci vediamo la prossima volta.

E ci salutammo con un sorriso. Passarono quasi due mesi prima che la rivedessi. Sembrava triste. Parlammo un poco, le solite cose, poi d’improvviso mi chiese se poteva tornare da me in settimana, accompagnata dal padre, che aveva bisogno di parlare con lui davanti a me. Quando mi disse chi era il padre mi piombò addosso tutto in un istante. Non avevo fatto il collegamento, come avrei potuto? Il padre veniva spesso da me nelle ultime settimane prima che la moglie morisse di cancro. Era disperato. Parlavamo, piangeva, si sfogava, imprecava, chiedeva spiegazioni con rabbia profonda. Mi aveva accennato al fatto di avere due figli gemelli, ma non li avevo mai visti. Mi disse che vivevano all’estero. Negli ultimi istanti della vita di sua moglie mi chiese di prescrivergli una confezione di Morfina da 20mg, cinque fiale. Il giorno dopo lei morì. Alla constatazione di decesso mi accorsi che la scatola di Morfina era vuota, ma non feci parola. Non immaginavo che Elisa fosse suo figlio… cioè, sua figlia. Accettai, li avrei incontrati assieme volentieri. Alcune settimane fuggirono via nella routine del lavoro e della vita. Un pomeriggio, li vidi seduti l’uno accanto all’altra in sala d’aspetto, facevano la fila. Quando fu il loro turno mi alzai per accoglierli e stringere loro la mano, li feci accomodare. Seduti davanti a me facevano l’effetto di due universi che collide-vano all’improvviso. Elisa iniziò a parlare con voce calma, usando parole posate, lucide, dirette, sebbene non guardasse mai il padre negli occhi, tradendo un timore infantile nei confronti di quell’uomo dagli occhi azzurri e glaciali. Disse finalmente, anche a lui, che stava facendo un percorso psicoterapeutico per capire meglio chi fosse diventata e se avesse bisogno di fare l’operazione o meno. Il padre guardava me e ascoltava in silenzio. Elisa disse che aveva aspettato che la mamma morisse, per non imporsi, per accompagnarla e

restare accanto al padre, quando sarebbe giunto il momento fatale. Disse che la madre le aveva rivelato di temere per la stabilità mentale di suo marito e aveva chiesto di occuparsi di lui, quando lei sarebbe venuta a mancare. Io annuivo, dicevo poco e niente, facevo da moderatore fra queste due anime gonfie di magma fluido, in procinto di eruttare. Il padre di Elisa scoppiò in un pianto disperato. Continuava a chiamarlo Davide, disse che la madre aveva chiesto a lui di occuparsi dei figli, di stargli accanto e di proteggerli. Mi parlò di Davide e del suo fratello gemello con gli occhi brillanti di lacrime e quella tenera fierezza che hanno i padri amorevoli. Disse che da bambini erano splendidi. Erano gemelli monoplacentari, e alla mia domanda se fossero monozigoti o monocoriali non seppe rispondere; disse solo che la placenta la stavano ancora studiando, perché erano figli monoplacentari ma uno era venuto fuori biondo con gli occhi azzurri che lavorava e viveva in Piemonte con moglie e figli, mentre Davide, cioè Elisa, era mora, riccia e con gli occhi castani. Parlava di loro bam-bini, sembrava felice. Disse che Davide era sempre stato bravo a scuola ed era diventato un bravissimo architetto. Ma per lui era e restava Davide e non poteva essere Elisa. Chiese a Davide di andare all’estero a rifarsi una vita, che ci sono paesi molto più aperti ed evoluti del nostro. Si vedeva che non aveva accettato che Davide non esisteva più, o almeno quasi più, e che di fronte a lui ci fosse Elisa, o almeno quasi Elisa… Io ascoltavo con attenzione, scambiavo occhiate d’intesa con Elisa, facevo domande banali: quanto fosse difficile buro-craticamente cambiare sesso o se fosse concepibile il fatto di andare a fare una vita da architetto in una grande città del Nord dell’Europa, dove forse si poteva sperare in una mag-giore comprensione sociale. Sottintendevo che il padre sembrava poco disposto a convivere con lei e andava in qualche modo aiutato. Elisa ascoltò con pazienza. Attese. Abbassò gli occhi e con la sua voce suadente e ferma disse parole dure come il marmo: lei non si sa-rebbe nascosta mai, né qui né altrove. Disse che non sapeva ancora viagra pas cher france internet cosa fosse meglio per lei. Che aveva atteso di parlare chiaramente per meglio accudire la madre prima e attendere poi che il padre si sentisse meglio e si riprendesse dal lutto. Adesso la sua priorità era com-prendere fino in fondo chi fosse e se fare l’operazione o meno, e aveva bisogno di tempo per questo. Voleva fare il percorso psicoterapeutico fino in fondo e si sarebbe trovata un lavoro qui, per ora, poi avrebbe deciso. Non sarebbe fuggita via però, questo mai. Io e il padre di Elisa ci guardammo a lungo. Aveva ragione lei.